rischio lavoratori non standard

rischio lavoratori non standard
Rischio lavoratori non standard
Il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro, all’articolo 28, prescrive che tra i rischi che il Datore di Lavoro deve valutare siano compresi, oltre a quelli connessi al genere, anche quelli connessi all’età, alla provenienza da altri Paesi e alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro. Tali fattori, infatti, possono rendere le persone più “vulnerabili” e si connotano come fattori emergenti di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori. Pertanto, l’analisi della diversità della forza lavoro, così come plasmata dalle attuali tendenze sociali e demografiche, rappresenta la premessa imprescindibile per una corretta valutazione e gestione dei rischi. 

1. IL FATTORE ETÀ COME AGGRAVANTE DEL RISCHIO
L’età rappresenta un fattore aggravante il rischio per i giovani lavoratori e per i lavoratori cosiddetti “anziani”. In Italia sono previste misure a tutela dei lavoratori più giovani già dalla legge 977/67, che impone al datore di lavoro l’obbligo di valutare il rischio considerando il fattore età come aggravante in quanto latore di particolare vulnerabilità. Questa è dovuta allo sviluppo fisico non ancora completo e alla accresciuta suscettibilità all’esposizione a particolari agenti di pericolo (rumore, vibrazioni, temperature ambientali troppo alte o troppo basse, sostanze pericolose), ma anche all’immaturità psicologica, che naturalmente connota i più giovani, causando una errata percezione del pericolo e la conseguente sottovalutazione del rischio. A questi fattori spesso si aggiungono, come concause aggravanti, i bassi livelli di informazione e formazione, la scarsa conoscenza dei propri diritti e, nel caso dei contratti di lavoro a tempo determinato, l’accettazione di mansioni pericolose o di turni e orari irregolari, nel tentativo di conservare il posto di lavoro o di migliorare le proprie condizioni contrattuali. Secondo le stime dell’UE, malgrado il tasso medio degli infortuni mortali tra i giovani sia inferiore a quello riscontrato nei lavoratori più anziani, l’incidenza di infortuni è particolarmente elevata in alcuni settori, primi fra tutti l’agricoltura e le costruzioni. In quest’ultimo comparto si registra per i giovani il più alto numero, in termini assoluti, di infortuni con esito letale.  I dati europei, inoltre, dimostrano che i giovani, in modo particolare di sesso maschile, sono a maggior rischio di subire un infortunio; per quanto riguarda le malattie professionali le patologie più diffuse sono reazioni allergiche, dermatiti, affezioni polmonari e disturbi muscolo-scheletrici. Infine i giovani lavoratori, in particolare le donne, sono particolarmente esposti al pericolo di subire molestie e violenze. Un dato di particolare interesse è legato ai problemi di salute dovuti a stress, ansia e depressione per i quali si sono registrati almeno 14 giorni di assenza dal lavoro: circa la metà dei casi segnalati interessa lavoratori con età inferiore a 25 anni (Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2007). Per quanto riguarda i lavoratori cosiddetti “anziani”, over 50, fattori aggravanti del rischio legati all’età possono essere rappresentati dalla diminuzione sia della forza fisica che della facilità di movimento, nonché dalla maggiore tendenza all’affaticamento causato da turnazioni o da particolari orari di lavoro. Anche la fisiologica riduzione delle capacità visive e uditive può contribuire all’aggravamento del rischio, soprattutto infortunistico. È evidente che l’incidenza dei diversi fattori aggravanti legati all’età sullo stato di salute dei lavoratori, inteso come stato di completo benessere, dipende strettamente dal campo di attività in cui si esplica la funzione lavorativa.

1.1 La discriminazione dei lavoratori “anziani”
Un rischio emergente negli ambienti di lavoro è legato alla discriminazione dei lavoratori “anziani” che, sulla scorta di pregiudizi e stereotipi culturalmente assai diffusi, vengono progressivamente relegati a processi monotoni e poco stimolanti, nonostante siano ancora soggetti socialmente ed economicamente attivi e rappresentino una quota sempre più importante della popolazione lavorativa (Posthuma & Campion, 2009) . L’invecchiamento della forza lavoro è una naturale conseguenza dell’invecchiamento della popolazione. Nei paesi occidentali il numero dei lavoratori over 50 è in progressivo aumento a causa di tre fattori principali: il boom demografico del secondo dopoguerra, l’aumento dell’età media e dell’aspettativa di vita e il calo delle nascite cui si assiste negli ultimi anni (Cuomo & Mapelli, 2007). In particolare, l’Italia sembra invecchiare più rapidamente e ha un tasso di natalità inferiore alla media degli altri paesi della UE; per il 2030 si prevede che il rapporto tra la popolazione con età superiore a 65 anni e la fascia compresa tra i 16 e i 64 raggiungerà il 43% (Vienna Institute of Demography, 2010). La Direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale di lotta alle discriminazioni, impone agli Stati membri: 1) di mettere a punto una normativa nazionale che vieti le discriminazioni, dirette o indirette, basate sull’età e 2) di rendere illegale la disparità di trattamento tra le persone, anche per motivi di età, nel settore dell’occupazione. L’ageism, neologismo coniato alla fine degli anni ’70, rappresenta un approccio culturale negativo che può avere come conseguenza il sottoutilizzo di risorse di valore, discriminate solo perché appartenenti a una determinata fascia di età. Questo fenomeno affonda le sue radici in pregiudizi, quindi si basa su generalizzazioni e semplificazioni della realtà, quali ad esempio: 1) le competenze necessarie allo sviluppo di un’attività lavorativa sono più facilmente riscontrabili nei giovani, 2) i lavoratori over 50 sono meno motivati e poco disponibili ad affrontare percorsi di cambiamento, e meno pronti ad affrontare percorsi di sviluppo professionale. Al contrario, la ricerca scientifica ha dimostrato che l’età non è di per sé un parametro predittivo di competenze, motivazioni e prestazioni (Bombelli & Finzi, 2006). 

1.2 Strategie aziendali per favorire la partecipazione attiva dei lavoratori “over 50”
Nelle aziende come l’INAIL, la cui popolazione lavorativa è per circa il 50% composta da lavoratori over 50, la messa in campo di azioni che favoriscano la loro partecipazione attiva al lavoro diviene cruciale. La capacità di gestire una forza lavoro che invecchia può essere misurata attraverso i seguenti parametri: 1) sensibilizzazione della dirigenza sul tema dell’età, 2) informazione e formazione continua dei lavoratori, 3) gestione orizzontale dei compiti e delle mansioni, assegnazione ad attività di tutoraggio, 4) politiche di flessibilità, 5) assistenza medico sanitaria e attenzione al rispetto dei principi ergonomici in ottica di età. In particolare, la formazione deve essere offerta indiscriminatamente a tutta la popolazione aziendale, a dispetto del preconcetto molto diffuso che l’investimento di risorse economiche nella formazione dei lavoratori “anziani” non dia alcun ritorno all’azienda. Al contrario, è dimostrato che la formazione non solo consente agli over 50 di acquisire ulteriori competenze, utili per lo svolgimento dei propri compiti o per il reorientamento professionale, ma contribuisce anche al recupero di motivazione e all’incremento della produttività. È stato inoltre ampiamente dimostrato come la flessibilità rappresenti un potente strumento di conciliazione fra tempi di lavoro e tempi di vita, contribuisca a ridurre le assenze e i ritardi e incrementi l’efficienza delle risorse facilitando la permanenza al lavoro. Sarebbe pertanto necessario adottare buone prassi che favoriscano la flessibilità di orario e di luogo di lavoro, e incoraggino il personale all’utilizzo di strumenti di conciliazione sfatando, al contempo, il diffuso pregiudizio che solo i lavoratori privi di obblighi di cura e assistenza possano rendere al meglio sul lavoro. La valorizzazione della salute delle risorse più mature dovrebbe prevedere misure quali: organizzazione di incontri informativi, gestiti da esperti esterni, mirati alla prevenzione di patologie croniche e/o degenerative; convenzioni con centri medici diagnostici; progettazione di postazioni e ambienti di lavoro, nonché organizzazione dell’attività lavorativa, in ottica di età (Raffaglio, 2011). La mensa aziendale, inoltre, dovrebbe proporre un’alimentazione studiata in base alla composizione demografica del proprio personale e dovrebbero essere organizzati eventi informativi aventi come tema centrale l’importanza della corretta alimentazione sia per la prevenzione delle patologie che come supporto alle terapie mediche 

2. RISCHI CONNESSI ALLA PROVENIENZA DA ALTRI PAESI: LE RIPERCUSSIONI DELLE DISCRIMINAZIONI SU SALUTE E SICUREZZA NEL LAVORO
La provenienza da altri paesi può rappresentare un fattore di rischio di discriminazione: è indubbio infatti che i lavoratori immigrati spesso scontino, oltre a molte altre difficoltà, anche quelle legate alla diffusione di forme di lavoro sommerso, all’impiego nei lavori più gravosi, alla comprensione della lingua, alla scarsa e/o inadeguata formazione e informazione sui rischi e sulle misure di prevenzione e protezione. È infatti un dato di fatto che, oltre al lavoro domestico, ivi compreso quello che sopperisce ad alcune carenze di tipo assistenziale e sociale mediante il lavoro di cura per le famiglie che migliaia di immigrati, soprattutto donne, svolgono quotidianamente nelle case degli italiani, gli immigrati siano spesso impiegati in attività a basso contenuto intellettuale e forte componente di mano d’opera, spesso in settori abbandonati dai lavoratori italiani perché troppo faticosi o rischiosi, oltre che di scarso reddito. È evidente che, accanto a fenomeni di discriminazione diretta che possono comportare per i  lavoratori immigrati ipotesi di rischio specifiche, sussiste comunque una diffusa e latente discriminazione indiretta che fa sì che questi lavoratori siano esposti al pericolo in maniera più generalizzata e, da parte loro, con minor percezione. I più diffusi fattori di rischio sono sicuramente: 1) un maggiore stress dovuto a condizioni di vita extra lavorative, 2) l’impiego in lavori più gravosi, 3) una minore preparazione alla percezione del rischio per ragioni culturali e linguistiche, 4) una minore conoscenza della normativa in materia di sicurezza, 5) la maggiore difficoltà ad accedere ai servizi pubblici di prevenzione anche per una scarsa consapevolezza dell’esigibilità dei diritti, 6) la maggior presenza di lavoratori immigrati nelle imprese di piccola dimensione. Il d.lgs. n. 81/2008 compie alcuni importanti passi avanti nella direzione della tutela della salute e sicurezza sul lavoro nei confronti delle categorie di soggetti che più facilmente di altre sono esposte a fattori di rischio di discriminazione. Gli immigrati sono appunto una di queste categorie svantaggiate, esposte a uno dei più gravi fattori di rischio per le discriminazioni previsti dalla normativa comunitaria, talvolta colpiti da discriminazioni multiple come nel caso delle donne immigrate. L’informazione e la formazione sono due leve strategiche per garantire il contrasto di ogni forma di discriminazione e al tempo stesso una miglior tutela dei lavoratori. Il Testo Unico, innovando rispetto al passato, richiede un intervento specifico mirato ai lavoratori immigrati e all’art. 36 prevede che ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione sui rischi per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività della impresa in generale nonché sui rischi specifici, sui pericoli cui è esposto e sul sistema di prevenzione. Per i lavoratori immigrati, al fine di garantire loro la piena comprensione delle informazioni, la legge prevede la verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo. Lo stesso principio viene confermato dall’art. 37 per la formazione dei lavoratori in merito alla quale il datore di lavoro deve assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche. Lo svolgimento di corsi di lingua italiana integrativi per la formazione dei lavoratori stranieri è uno degli interventi utili ai fini della richiesta, da parte delle aziende, della riduzione del tasso medio di tariffa del premio assicurativo dovuto all’Inail ai sensi dell’art. 24 del d.m. 12.12.2000 così come riscritto dal d.m. 3.12.2010.

3. RISCHI RICOLLEGABILI ALLA TIPOLOGIA CONTRATTUALE
L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA) nel rapporto dal titolo “Workforce diversity and risk assessment: ensuring everyone is covered” sostiene che la valutazione dei rischi deve essere effettuata tenendo conto della diversità della forza lavoro. Nel nostro Paese per lungo tempo la tipologia di contratto prevalente è stata quello “dipendente” caratterizzato dalle seguenti condizioni: l’assenza di un termine di scadenza, la continuità delle prestazioni e l’impegno temporale di tipo a tempo pieno. Negli ultimi anni diversi interventi normativi hanno prodotto una notevole differenziazione delle tipologie contrattuali rispondendo in questo modo alla richiesta di maggior flessibilità del rapporto di lavoro. Con il d.lgs. n. 276/2003 (c.d.Legge Biagi) è stata infatti effettuata una ampia rivisitazione della normativa in materia di rapporti di lavoro con l’introduzione di nuove forme contrattuali quali ad esempio il lavoro a progetto, il lavoro a chiamata il lavoro ripartito ecc.. Le nuove tipologie di rapporti avrebbero dovuto non solo rappresentare una risposta alle esigenze del mercato ma anche contribuire ad un migliore equilibrio tra la vita familiare e professionale introducendo maggiore flessibilità all’organizzazione dell’orario di lavoro, incrementando allo stesso tempo le possibilità di occupazione. Finora, infatti, erano conosciute essenzialmente tre categorie di lavoratori: i lavoratori subordinati, i lavoratori autonomi (come ad es. i professionisti iscritti negli appositi albi) ed infine i c.d. lavoratori parasubordinati. Alla luce delle avvenute riforme del diritto del lavoro non può più parlarsi di tre sole categorie di lavoratori, in quanto il quadro è ora diventato molto più ampio e variegato. Si è creata una variabile di rapporti di lavoro definiti come “atipici” il cui grado di atipicità è direttamente proporzionale a quanto si discosta dalla tipologia di lavoro “standard” (a tempo pieno, durata indeterminata ecc.). Indipendentemente dal genere di rapporto contrattuale che lega datore di lavoro e lavoratore, l’art. 2 del d.lgs. 81/08 impone comunque l’obbligo di comprendere nella valutazione dei rischi tutti i lavoratori definendo in questo modo tutti coloro che a vario titolo sono inseriti in una organizzazione lavorativa compresi i soggetti che non percepiscono una retribuzione. La volontà del legislatore viene poi ribadita nel successivo art. 28 dove si precisa che il processo di valutazione dei rischi dovrà prestare particolare attenzione a quelli “connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro”. Viene quindi fatto obbligo di prendere in considerazione tutte le “variabili” che possono rendere alcuni gruppi di lavoratori, per le loro peculiarità anche solo contrattuali, più “fragili”. Infatti i rapporti di lavoro “non standard” o “atipici” possono, proprio per le loro caratteristiche, determinare nuove situazioni di rischio legate ad esempio alla frammentarietà del lavoro, temporaneità della prestazione, ai frequenti cambi di mansione, alle particolari modalità di inserimento di tali tipologie di lavoratori nell’impresa ed inoltre alla condizione di precarietà che influisce sui comportamenti dando più rilevanza alla “sicurezza del posto di lavoro che non alla sicurezza sul posto di lavoro” (Gallo, 2010). È necessario quindi innanzitutto inquadrare e censire tutte le forme di rapporto contrattuale presenti all’interno dell’unità produttiva identificando i rischi legati alla flessibilità, al fine di adottare le misure organizzative a garanzia di una maggiore tutela, verificando ad esempio se tutti i meccanismi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro come ad esempio la formazione o la sorveglianza sanitaria siano stati adeguatamente impostati. Per poterle compiutamente analizzare, le diverse forme contrattuali dovranno essere classificate tenendo conto dei fattori caratterizzanti, quali: la temporaneità del rapporto, la tipologia di lavoro dissociato, la flessibilità della prestazione nonché la natura del rapporto. La valutazione deve quindi tener conto della presenza di lavoratori temporanei, del loro numero, delle mansioni e dei rischi generici e specifici ai quali possono essere esposti, considerando che la presenza di questi lavoratori può comportare modifiche dell’assetto organizzativo e quindi essere un rischio aggiuntivo per il restante personale.

Commenti